Tra le questioni economiche più dibattute fra il XII e il XVI secolo, vi fu quella riguardante l'usura, affrontata sopratutto in un'ottica cristiana. Di tale tema si occupò anche il maggior filosofo e teologo dell'epoca tardo-medioevale: Tommaso d'Aquino. Egli insegnò nei maggiori centri culturali europei e, tra il 1265 e il 1273, scrisse la sua opera più celebre, la Summa Theologiae. Nel suo capolavoro, Tommaso attuò una originale sintesi tra insegnamento cristiano e filosofia aristotelica.
Proprio Aristotele giudicava contro natura e da condannare ogni ricchezza derivante dal commercio, in particolare il commercio di denaro, ovvero il prestito ad interesse. Tommaso prese una posizione più moderata rispetto al maestro greco, ma anche diversamente da alcuni pesatori cristiani che, dando una certa interpretazione delle parole pronunciate da Gesù <<prestate senza sperare nulla>>, condannavano irrevocabilmente l'interesse. Tommaso infatti distinse vari casi di prestito a interesse, alcuni dei quali giustificati, altri da condannare. Un caso in cui tale forma di prestito è legittima si ha quando il prestatore subisce un damnum emergens, ma comunque il tasso d'interesse deve rimanere equilibrato.
Nei tempi a seguire, l'analisi casistica inaugurata da San Tommaso favorì un vivace dibattito sull'usura. I trattati e gli scritti su tale argomento costituiscono documenti di grande rilevanza per la storia economica. Da essi possiamo dedurre che i loro autori conoscevano la funzione del denaro come strumento per gli scambi e unità di conto, ma non come riserva di valore. Dalle opere sull'usura, inoltre, si evince una differenza rispetto al pensiero di Aristotele: non si condannava il commercio a prescindere, ma esso doveva svolgersi nel rispetto di un atteggiamento onesto, senza commettere frodi o speculare sulla debolezza altrui.
Ma il percorso verso un pieno riconoscimento dell'esistenza di interessi legittimi è segnato dallo scontro tra “intransigenti” e “riformatori”.
Da un punto di vista dottrinario, Calvino (XVI sec.) sostenne la legittimità dei prestiti a interesse, anche se esclusivamente per i crediti di natura commerciale; quelli al consumo, poiché si basavano sullo sfruttamento della debolezza del debitore, erano moralmente da condannare.
Sul finire del XVI secolo il dibattito era vivo anche da un punto di vista giuridico; ve ne è un esempio nel trattato A discourse upon usurye di Thomas Wilson. Nell'introduzione di tale opera è infatti illustrato l'Atto inglese del 1571 con cui si giunse ad un compromesso: ogni interesse superiore al 10% era privo di valore legale. Così si passò, anche da un punto di vista giuridico, alla concezione che non tutti i prestiti a interesse fossero usura, ma solo quelli che imponevano un tasso eccessivo. Il principio di un tetto massimo all'interesse fissato dalla pubblica autorità, in Inghilterra, suscitò critiche e consensi. Le leggi sull'usura, infine, furono abolite nel 1854.
Nei tempi a seguire, l'analisi casistica inaugurata da San Tommaso favorì un vivace dibattito sull'usura. I trattati e gli scritti su tale argomento costituiscono documenti di grande rilevanza per la storia economica. Da essi possiamo dedurre che i loro autori conoscevano la funzione del denaro come strumento per gli scambi e unità di conto, ma non come riserva di valore. Dalle opere sull'usura, inoltre, si evince una differenza rispetto al pensiero di Aristotele: non si condannava il commercio a prescindere, ma esso doveva svolgersi nel rispetto di un atteggiamento onesto, senza commettere frodi o speculare sulla debolezza altrui.
Ma il percorso verso un pieno riconoscimento dell'esistenza di interessi legittimi è segnato dallo scontro tra “intransigenti” e “riformatori”.
Da un punto di vista dottrinario, Calvino (XVI sec.) sostenne la legittimità dei prestiti a interesse, anche se esclusivamente per i crediti di natura commerciale; quelli al consumo, poiché si basavano sullo sfruttamento della debolezza del debitore, erano moralmente da condannare.
Sul finire del XVI secolo il dibattito era vivo anche da un punto di vista giuridico; ve ne è un esempio nel trattato A discourse upon usurye di Thomas Wilson. Nell'introduzione di tale opera è infatti illustrato l'Atto inglese del 1571 con cui si giunse ad un compromesso: ogni interesse superiore al 10% era privo di valore legale. Così si passò, anche da un punto di vista giuridico, alla concezione che non tutti i prestiti a interesse fossero usura, ma solo quelli che imponevano un tasso eccessivo. Il principio di un tetto massimo all'interesse fissato dalla pubblica autorità, in Inghilterra, suscitò critiche e consensi. Le leggi sull'usura, infine, furono abolite nel 1854.