Giorgio La Pira (Pozzallo, 9 gennaio 1904 – Firenze, 5 novembre 1977) ha sempre ritenuto la disoccupazione il peggiore dei mali sociali ed economici. Egli era favorevola a una decisa politica di intervento pubblico nell'economia. Tale posizione era condivisa dalla corrente democristiana dei dossettiani, di cui La Pira faceva parte. Per questa ragione essi si contrapposero duramente alla politica di Alcide De Gasperi, il quale valorizzava anche il ruolo dell'iniziativa privata, e cercava una sintesi efficace tra intervento statale e libero mercato, senza rinunciare al principio della giustizia sociale...
La Pira invece sosteneva una politica tesa a ricercare la piena occupazione, rielaborando a suo modo la teoria keynesiana. Per comprendere meglio, ecco un estratto del suo saggio "La difesa della povera gente", pubblicato nelle "Cronache Sociali" nel 1950:
"[...] La disoccupazione è un consumo senza corrispettivo di produzione: è, perciò, uno sperpero di beni e di forze produttive.
La conseguenza è evidente: un sistema economico che sia affetto da questo male è come un organismo affetto dal cancro: porta in sé un germe che lo corrode.
E la ragione è chiara: la disoccupazione, infatti, è causa di un lucro cessante e di un danno emergente: il primo, perché essa significa produzione mancata (2 milioni di disoccupati stabili significano in Italia più di 600 miliardi annui di produzione mancata); il secondo, perché questi disoccupati devono pur vivere, e, quindi, consumare (non possono essere eliminati!): ora questo «consumare» importa necessariamente in Italia una spesa che va dai 100 ai 150 miliardi annui, per non tenere conto che della pura sussistenza dei due milioni disoccupati e non dei familiari.
Questa premessa economica, perciò, ne include in sé una finanziaria che può essere così formulata: la disoccupazione di massa provoca una circolazione monetaria senza corrispettivo di produzione ed è, perciò, quando si prolunga, causa di inflazione. (È questo punto che va meditato). Se questa premessa economica è vera, come è vera, ne deriva una evidente necessità terapeutica: bisogna estirpare questo cancro roditore (senza dire, però, degli effetti sociali dissolvitori che esso necessariamente produce) se si vuole dare sanità, stabilità, produttività, al sistema economico e finanziario.
Terapia causale, di fondo, non sintomatica ed episodica: cura dell'intiero sistema, nelle sue articolazioni essenziali e non cure piccole e dispersive (sussidi, lavori pubblici occasionali) che non producono nessun effetto sostanziale per la restaurazione intrinseca dell'organismo malato.
[…] Lo sradicamento della disoccupazione e della miseria -e, quindi, il risanamento del sistema economico e finanziario- non può essere operato organicamente che dallo Stato e costituisce il compito nuovo, ed in certo modo fondamentale, dello Stato moderno.
Questa premessa è, sotto certi aspetti, quella che dà concretezza, possibilità di attuazione, a tutte le altre: sta alle altre come sta il mezzo al fine: perché la premessa religiosa, quella metafisica, quella storica e quella economica diventano operanti, nella società moderna e, perciò, si traducono nella realtà sociale solo mediante l'applicazione di questa essenziale premessa politica.
Inutile qui citare di nuovo Beveridge e tutti gli scrittori del pieno impiego. Non posso non richiamare tuttavia il rapporto dell'ONU di Clark, Smithies, Kaldor, Uri, Walker, circa le misure nazionali ed internazionali atte a determinare ed a mantenere il pieno impiego; uno studio chiaro, meditato, ben costruito che va qui ricordato è quello di R. S. Savers, «L'instabilità dell'economia americana », in Moneta e Credito, 1949, n. 7, 269 sgg.: in esso è disegnato a chiare linee il meccanismo economico e finanziario che lo Stato americano deve muovere per mantenere la stabilità del sistema economico e finanziario, interno ed internazionale: stabilità, è evidente, che ha come condizione -almeno al limite -il pieno impiego delle risorse produttive in genere e della mano d'opera in ispecie. Mi riservo, in altro studio, di mostrare com~equesta premessa politica abbia fondamento nella architettonica del bene comune, così magistralmente disegnata da San Tommaso 7.
E si capisce: la disoccupazione massiccia e permanente non è un «episodio» della vita economica: gli studi e le ricerche statistiche ne hanno ormai mostrato le cause e la connessione con l'intiero sistema economico e finanziario: e come può il sistema economico essere stabilizzato, a dati livelli di produzione e di occupazione, se lo Stato -il solo capace di far questo -non lo voglia e, se necessario, non ne assume organicamente -mediante la spesa « compensatrice » -la « cura» in ossequio alla sua funzione integratrice? È proprio il caso di richiamare la funzione che in diritto romano ha il diritto pretorio rispetto al diritto civile: quod praetores introduxerunt juris civilis corrigendi gratia, vel adiuvandi gratia, vel supplendi gratia. (D. 1, 2, 7).
Il Padre HERING o. P. mostra in un recente articolo (Charité d'hier, justice d'aujourd'hui) come lo Stato contemporaneo vada necessariamente assumendo compiti nuovi che erano prima affidati alla carità privata (tutto il vasto campo dell'assistenza sociale ed ora, organicamente, quello della disoccupazione).
Ma la parola Stato non deve spaventare: è suscettiva di vaste analisi: non significa necessariamente né la burocrazia imbelle, né la distruzione di ogni vita personale, propulsiva: può e deve, invece, significare l'intervento organico, rapido, stimolativo integratore, dell'iniziativa umana! È lo stato nuovo, con lettera maiuscola se volete: uno stato proporzionato alla velocità attuale, sempre in crescita dell'azione umana: lo Stato fatto davvero per la persona umana: si sa, c'è da cambiare parecchio nell'attuale arteriosclerotica struttura statale.
[…]
Davanti a questo quadro generale della situazione economica (e sociale) italiana, la domanda è evidente: può durare? E la risposta è pure evidente: non può durare.
È inutile argomentare, distinguere, mostrare che una parte del sistema è sano e rigoglioso, e che la lira è salda e così via: il sistema economico e finanziario è indivisibile, la diagnosi è quella che è ed il giudizio intorno al suo prolungarsi non può essere che questo: non può e non deve durare più oltre.
Qui non si tratta di essere keynesiani e non-keynesiani: sono le cose, caso mai, keynesiane: cioè sono le cose che esigono non una «contemplazione» del sistema economico e dei suoi «fenomeni di automatico assestamento» -automatismo smentito da un secolo di storia economica- ma un rapido, decisivo intervento terapeutico (e, se fosse necessario, anche chirurgico). Qualunque medico attento, responsabile, dice: il sistema è ancora fondamentalmente sano, le parti malate devono, però, essere prontamente sanate se non si vuole che l'infezione si comunichi a tutto l'organismo: non bisogna tardare più oltre.
Se questo significa fare del keynesismo, sia pure, ne sia lode a Keynes: il fatto resta quale è (contra factum non valet argumentum). Ma la diagnosi va più oltre: la sanità di un sistema economico si misura mediante il livello produttivo e quello corrispondente del reddito complessivo (ed individuale); orbene, la disoccupazione ha un costo di 600 miliardi annui di produzione mancata (calcolo di Zellerbach) , cioè il 10% della produzione complessiva e del reddito complessivo (il reddito a testa nel 1949 -dice la relazione sulla situazione economica del paese presentata dal Ministro del Tesoro a pago 10- è ancora inferiore di circa il 10% a quello prebellico): essa importa, inoltre -complessivamente, cioè calcolate anche le persone a carico- una spesa improduttiva che si può calcolare in 250-300 miliardi all'anno (i disoccupati devono pur vivere e, quindi, spendere).
Ecco la «situazione». Possiamo stringerci nelle spalle e dire: che cosa posso farci?
Bisogna, invece, dire: oltre il già fatto, qualcosa di serio, di organico, di pronto, va ulteriormente fatto, perché altrimenti «le cose si faranno da sé» e non sarà certo per il meglio. Merita qui citare Vico: le cose fuori del loro stato di natura né vi si adagiano né vi durano. Che cosa fare? È chiaro: è stato anche da altri limpidamente detto nel corso di questa polemica: elevare la produzione ed il consumo (interno ed estero) sino al livello del pieno impiego (o, almeno, della massima occupazione possibile) delle risorse produttive: cioè occupare almeno gran parte dei disoccupati."
"[...] La disoccupazione è un consumo senza corrispettivo di produzione: è, perciò, uno sperpero di beni e di forze produttive.
La conseguenza è evidente: un sistema economico che sia affetto da questo male è come un organismo affetto dal cancro: porta in sé un germe che lo corrode.
E la ragione è chiara: la disoccupazione, infatti, è causa di un lucro cessante e di un danno emergente: il primo, perché essa significa produzione mancata (2 milioni di disoccupati stabili significano in Italia più di 600 miliardi annui di produzione mancata); il secondo, perché questi disoccupati devono pur vivere, e, quindi, consumare (non possono essere eliminati!): ora questo «consumare» importa necessariamente in Italia una spesa che va dai 100 ai 150 miliardi annui, per non tenere conto che della pura sussistenza dei due milioni disoccupati e non dei familiari.
Questa premessa economica, perciò, ne include in sé una finanziaria che può essere così formulata: la disoccupazione di massa provoca una circolazione monetaria senza corrispettivo di produzione ed è, perciò, quando si prolunga, causa di inflazione. (È questo punto che va meditato). Se questa premessa economica è vera, come è vera, ne deriva una evidente necessità terapeutica: bisogna estirpare questo cancro roditore (senza dire, però, degli effetti sociali dissolvitori che esso necessariamente produce) se si vuole dare sanità, stabilità, produttività, al sistema economico e finanziario.
Terapia causale, di fondo, non sintomatica ed episodica: cura dell'intiero sistema, nelle sue articolazioni essenziali e non cure piccole e dispersive (sussidi, lavori pubblici occasionali) che non producono nessun effetto sostanziale per la restaurazione intrinseca dell'organismo malato.
[…] Lo sradicamento della disoccupazione e della miseria -e, quindi, il risanamento del sistema economico e finanziario- non può essere operato organicamente che dallo Stato e costituisce il compito nuovo, ed in certo modo fondamentale, dello Stato moderno.
Questa premessa è, sotto certi aspetti, quella che dà concretezza, possibilità di attuazione, a tutte le altre: sta alle altre come sta il mezzo al fine: perché la premessa religiosa, quella metafisica, quella storica e quella economica diventano operanti, nella società moderna e, perciò, si traducono nella realtà sociale solo mediante l'applicazione di questa essenziale premessa politica.
Inutile qui citare di nuovo Beveridge e tutti gli scrittori del pieno impiego. Non posso non richiamare tuttavia il rapporto dell'ONU di Clark, Smithies, Kaldor, Uri, Walker, circa le misure nazionali ed internazionali atte a determinare ed a mantenere il pieno impiego; uno studio chiaro, meditato, ben costruito che va qui ricordato è quello di R. S. Savers, «L'instabilità dell'economia americana », in Moneta e Credito, 1949, n. 7, 269 sgg.: in esso è disegnato a chiare linee il meccanismo economico e finanziario che lo Stato americano deve muovere per mantenere la stabilità del sistema economico e finanziario, interno ed internazionale: stabilità, è evidente, che ha come condizione -almeno al limite -il pieno impiego delle risorse produttive in genere e della mano d'opera in ispecie. Mi riservo, in altro studio, di mostrare com~equesta premessa politica abbia fondamento nella architettonica del bene comune, così magistralmente disegnata da San Tommaso 7.
E si capisce: la disoccupazione massiccia e permanente non è un «episodio» della vita economica: gli studi e le ricerche statistiche ne hanno ormai mostrato le cause e la connessione con l'intiero sistema economico e finanziario: e come può il sistema economico essere stabilizzato, a dati livelli di produzione e di occupazione, se lo Stato -il solo capace di far questo -non lo voglia e, se necessario, non ne assume organicamente -mediante la spesa « compensatrice » -la « cura» in ossequio alla sua funzione integratrice? È proprio il caso di richiamare la funzione che in diritto romano ha il diritto pretorio rispetto al diritto civile: quod praetores introduxerunt juris civilis corrigendi gratia, vel adiuvandi gratia, vel supplendi gratia. (D. 1, 2, 7).
Il Padre HERING o. P. mostra in un recente articolo (Charité d'hier, justice d'aujourd'hui) come lo Stato contemporaneo vada necessariamente assumendo compiti nuovi che erano prima affidati alla carità privata (tutto il vasto campo dell'assistenza sociale ed ora, organicamente, quello della disoccupazione).
Ma la parola Stato non deve spaventare: è suscettiva di vaste analisi: non significa necessariamente né la burocrazia imbelle, né la distruzione di ogni vita personale, propulsiva: può e deve, invece, significare l'intervento organico, rapido, stimolativo integratore, dell'iniziativa umana! È lo stato nuovo, con lettera maiuscola se volete: uno stato proporzionato alla velocità attuale, sempre in crescita dell'azione umana: lo Stato fatto davvero per la persona umana: si sa, c'è da cambiare parecchio nell'attuale arteriosclerotica struttura statale.
[…]
Davanti a questo quadro generale della situazione economica (e sociale) italiana, la domanda è evidente: può durare? E la risposta è pure evidente: non può durare.
È inutile argomentare, distinguere, mostrare che una parte del sistema è sano e rigoglioso, e che la lira è salda e così via: il sistema economico e finanziario è indivisibile, la diagnosi è quella che è ed il giudizio intorno al suo prolungarsi non può essere che questo: non può e non deve durare più oltre.
Qui non si tratta di essere keynesiani e non-keynesiani: sono le cose, caso mai, keynesiane: cioè sono le cose che esigono non una «contemplazione» del sistema economico e dei suoi «fenomeni di automatico assestamento» -automatismo smentito da un secolo di storia economica- ma un rapido, decisivo intervento terapeutico (e, se fosse necessario, anche chirurgico). Qualunque medico attento, responsabile, dice: il sistema è ancora fondamentalmente sano, le parti malate devono, però, essere prontamente sanate se non si vuole che l'infezione si comunichi a tutto l'organismo: non bisogna tardare più oltre.
Se questo significa fare del keynesismo, sia pure, ne sia lode a Keynes: il fatto resta quale è (contra factum non valet argumentum). Ma la diagnosi va più oltre: la sanità di un sistema economico si misura mediante il livello produttivo e quello corrispondente del reddito complessivo (ed individuale); orbene, la disoccupazione ha un costo di 600 miliardi annui di produzione mancata (calcolo di Zellerbach) , cioè il 10% della produzione complessiva e del reddito complessivo (il reddito a testa nel 1949 -dice la relazione sulla situazione economica del paese presentata dal Ministro del Tesoro a pago 10- è ancora inferiore di circa il 10% a quello prebellico): essa importa, inoltre -complessivamente, cioè calcolate anche le persone a carico- una spesa improduttiva che si può calcolare in 250-300 miliardi all'anno (i disoccupati devono pur vivere e, quindi, spendere).
Ecco la «situazione». Possiamo stringerci nelle spalle e dire: che cosa posso farci?
Bisogna, invece, dire: oltre il già fatto, qualcosa di serio, di organico, di pronto, va ulteriormente fatto, perché altrimenti «le cose si faranno da sé» e non sarà certo per il meglio. Merita qui citare Vico: le cose fuori del loro stato di natura né vi si adagiano né vi durano. Che cosa fare? È chiaro: è stato anche da altri limpidamente detto nel corso di questa polemica: elevare la produzione ed il consumo (interno ed estero) sino al livello del pieno impiego (o, almeno, della massima occupazione possibile) delle risorse produttive: cioè occupare almeno gran parte dei disoccupati."