Per tutto l’Ottocento la classe degli imprenditori era stata privilegiata dai governi: grande diffidenza nei confronti delle organizzazioni sindacali, giudicate potenzialmente eversive (soprattutto perché il socialismo era l’ideologia predominante in esse) e in totale contrasto con la visione liberista della classe dirigente.
Lo sciopero era addirittura considerato dannoso per l’economia e l’interesse nazionale a prescindere dalle circostanze.
Nel 1889, tuttavia, fu promulgato il cosiddetto codice Zanardelli: in esso non erano previste sanzioni contro lo sciopero (come accadeva già nei paesi più industrializzati). Resistevano però alcune limitazioni alla libertà di riunione che potevano essere applicate in maniera repressiva.
Per ciò che riguarda i conflitti lavorativi bisognerà attendere il 1893, quando per legge furono istituiti, esclusivamente nel settore industriale, collegi di probiviri a cui avrebbero partecipato anche rappresentanti di associazioni imprenditoriali e operaie.
Tra i datori di lavoro perdurava tuttavia una concezione paternalistica del rapporto con i propri operai: non avevano bisogno di una rappresentanza sindacale, infatti ai loro problemi ci avrebbe pensato il padre-imprenditore che, trattando con benevolenza i suoi sottoposti, non avrebbe meritato vedersi picchettare la fabbrica né subire altre forme di protesta.
Tuttavia questa visione non impedì il proliferare di lotte operaie, anche molto cruente. Ne sono un esempio quelle dei tessitori biellesi negli anni 70. Molti furono i tentavi di repressione da parte dei governi, ma fallirono miseramente.
In età giolittiana così si tentò un’altra strada: dialogare con le componenti moderate e più aperte del mondo sindacale e del partito socialista. Nel 1902 furono istituiti presso il Ministero di agricoltura, industria e commercio l’ “Ufficio del lavoro” e il “Consiglio superiore del lavoro”. Quest’ultimo avrebbe cercato di mediare tra gli interessi delle parti sulla base dei dati elaborati dall’Ufficio, alla cui direzione, nel 1903, fu chiamato Giovanni Montemartini.
Una delle questioni principali immediatamente riscontrata fu quella del collocamento: attorno a essa ruotava una delle più accanite rivendicazioni operaie. Era una questione ideologica: prima che il facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro per contrastare la disoccupazione, gli operai si opponevano all’assunzione di lavoratori non sindacalizzati. Naturalmente gli imprenditori erano fortemente contrari a questa logica. Per evitare squilibri nella gestione degli uffici di collocamento (sia dal lato operario che dal lato imprenditoriale), Montemartini propose uffici misti sul modello tedesco: organizzazioni operaie e imprenditoriale avrebbero dovuto collaborare. Purtroppo tale idea rimase solamente sulla carta a causa delle forti opposizioni operaie.
Un’altra questione fu quella dei contratti collettivi di lavoro; nel 1907, il socialista riformista Gino Murialdi lavorò ad un progetto di legge per regolamentare tale forma di contrattazione. Lo stesso Luigi Einaudi si dichiarò favorevole alla diffusione dei contratti collettivi per stemperare i conflitti industriali. Purtroppo anche la proposta di Murialdi, come quella di Montemartini nel caso precedente, restò lettera morta.
Resistenze e volontà di aprirsi esistevano sia nel campo imprenditoriale che nel campo sindacale. Ma una vittoria delle ali più moderate e riformiste fu, almeno in età giolittiana, un evento irrealizzato.
Nel 1889, tuttavia, fu promulgato il cosiddetto codice Zanardelli: in esso non erano previste sanzioni contro lo sciopero (come accadeva già nei paesi più industrializzati). Resistevano però alcune limitazioni alla libertà di riunione che potevano essere applicate in maniera repressiva.
Per ciò che riguarda i conflitti lavorativi bisognerà attendere il 1893, quando per legge furono istituiti, esclusivamente nel settore industriale, collegi di probiviri a cui avrebbero partecipato anche rappresentanti di associazioni imprenditoriali e operaie.
Tra i datori di lavoro perdurava tuttavia una concezione paternalistica del rapporto con i propri operai: non avevano bisogno di una rappresentanza sindacale, infatti ai loro problemi ci avrebbe pensato il padre-imprenditore che, trattando con benevolenza i suoi sottoposti, non avrebbe meritato vedersi picchettare la fabbrica né subire altre forme di protesta.
Tuttavia questa visione non impedì il proliferare di lotte operaie, anche molto cruente. Ne sono un esempio quelle dei tessitori biellesi negli anni 70. Molti furono i tentavi di repressione da parte dei governi, ma fallirono miseramente.
In età giolittiana così si tentò un’altra strada: dialogare con le componenti moderate e più aperte del mondo sindacale e del partito socialista. Nel 1902 furono istituiti presso il Ministero di agricoltura, industria e commercio l’ “Ufficio del lavoro” e il “Consiglio superiore del lavoro”. Quest’ultimo avrebbe cercato di mediare tra gli interessi delle parti sulla base dei dati elaborati dall’Ufficio, alla cui direzione, nel 1903, fu chiamato Giovanni Montemartini.
Una delle questioni principali immediatamente riscontrata fu quella del collocamento: attorno a essa ruotava una delle più accanite rivendicazioni operaie. Era una questione ideologica: prima che il facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro per contrastare la disoccupazione, gli operai si opponevano all’assunzione di lavoratori non sindacalizzati. Naturalmente gli imprenditori erano fortemente contrari a questa logica. Per evitare squilibri nella gestione degli uffici di collocamento (sia dal lato operario che dal lato imprenditoriale), Montemartini propose uffici misti sul modello tedesco: organizzazioni operaie e imprenditoriale avrebbero dovuto collaborare. Purtroppo tale idea rimase solamente sulla carta a causa delle forti opposizioni operaie.
Un’altra questione fu quella dei contratti collettivi di lavoro; nel 1907, il socialista riformista Gino Murialdi lavorò ad un progetto di legge per regolamentare tale forma di contrattazione. Lo stesso Luigi Einaudi si dichiarò favorevole alla diffusione dei contratti collettivi per stemperare i conflitti industriali. Purtroppo anche la proposta di Murialdi, come quella di Montemartini nel caso precedente, restò lettera morta.
Resistenze e volontà di aprirsi esistevano sia nel campo imprenditoriale che nel campo sindacale. Ma una vittoria delle ali più moderate e riformiste fu, almeno in età giolittiana, un evento irrealizzato.